Stando a un manoscritto del sedicesimo secolo, la Minzana è un “terreno a vigna e brughiera” (ora è rimasta solo la brughiera) che si affaccia sul lago di Como all’altezza di Torno: “una riva bellissima di solitudine e alberate”, come la definisce Carlo Linati in Passeggiate lariane (1939). La Pliniana invece è una villa divenuta leggendaria grazie alle sue “ombrìe misteriose”, alla sua “fonte intermittente” e agli “ospiti illustri” che si sono succeduti nel tempo: “si direbbe - scrive ancora Linati - che tutti gli spiriti più cupi del romanticismo lombardo si siano dati convegno fra queste ombre scroscianti e acque fonde”.
Minzana-Pliniana, ancor prima che il titolo di un’esposizione, è il resoconto sommario del tragitto che Alberto Colombo percorre spesso in barca: la mostra è anzitutto la documentazione “in riquadri” di un viaggio che, a chi lo compie per la prima volta, risulta tanto breve quanto folgorante.
Alberto ha remato tra la Minzana e la Pliniana innumerevoli volte, però il senso di folgorazione, il presentimento di qualcosa di poderoso ed enigmatico, è rimasto intatto, come testimonia la sua pittura densa e vigorosa, ma pervasa da una luce lirica e da un tono sottilmente oracolare. Il passaggio dalla natura all’architettura, dallo sguardo sul paesaggio a quello sull’edificio, coincide infatti con il progressivo infittirsi di un mistero.
Colta soprattutto di notte, la Pliniana si rivela per accenni lasciando trapelare arcate e dettagli più o meno sibillini della sua facciata. Inquadrata perlopiù frontalmente e scrutata da un occhio meticoloso, la Minzana squaderna le sue fenditure, mette a nudo la sua fibra sassosa e il suo rapporto vertiginoso col lago. In entrambi i casi, la sensazione è la stessa che si prova quando un luogo sembra parlarci in modo tanto eloquente quanto indecifrabile.
Fonti d'ispirazione
Può darsi che, fuori dai confini del territorio lariano, il nome Pliniana dica ormai poco. Allora potrebbe essere il caso di rammentare che la Pliniana (quasi sempre davanti al nome compare l’articolo determinativo a sottolinearne l’unicità) è una villa davvero leggendaria, nella quale hanno soggiornato tra gli altri Napoleone, Foscolo, Stendhal, Byron, Manzoni, Rossini. Costruita nella seconda metà del Cinquecento a Torno, sulla riva destra del Lago di Como, attorno a una fonte intermittente già descritta in epoca romana da Plinio il Giovane, la villa è il luogo in cui è ambientato (sotto mentite spoglie) Malombra, un tenebroso romanzo dato alle stampe da Antonio Fogazzaro nel 1880 e trasposto al cinema da Mario Soldati nel 1942. Dopo decenni di incuria e di stagnazione istituzionale, l’edificio è stato restaurato e trasformato in una struttura alberghiera d’eccellenza con soddisfazione dei tornaschi. Il restauro compiuto dai proprietari della villa infatti è stato filologico, ma (caso rarissimo) ha avuto degli esiti spettacolari, nel senso che ha permesso alla Pliniana di tornare a spiccare, ad avere il suo originario risalto nel paesaggio lacustre. La storia della mostra di Alberto Colombo inizia da qui, dall’happy end da manuale di questa vicenda, e s’innesta anzi in una delle sue ulteriori conseguenze. Alberto è un pittore che scruta il lago (le acque ma soprattutto le coste e, verrebbe da dire, le arie del lago) da una barca, e lo fa spesso e volentieri di notte. La nuova illuminazione notturna della Pliniana, anch’essa filologica ma accortamente scenografica, ha rappresentato per lui qualcosa di teneramente antico al quale diamo tuttora il nome di fonte d’ispirazione. Per intenderci, il soggetto di un dipinto è cosa ben diversa dalla sua fonte d’ispirazione, e non solo perché il primo elemento ha un rapporto diretto con l’immagine mentre il secondo decisamente più indiretto. Un soggetto viene raffigurato e come contenuto nell’immagine, una fonte d’ispirazione non solo non è “contenibile”, ma anzi basa il suo funzionamento sull’incontinenza, sulla tracimazione: è l’immagine infatti che scaturisce da essa, proprio come da una fonte. Non a caso le immagini pittoriche raccolte in questa mostra hanno anzitutto un aspetto sorgivo, sembrano come appena sgorgate, appaiono quasi zampilli di visioni. Altra distinzione importante: un soggetto in fondo lo si possiede attraverso l’immagine, da un’ispirazione si è posseduti e ciò che ne scaturisce ha sempre un versante visionario. Quindi dovremmo prendere in considerazione l’ipotesi che le visioni proposte da queste opere non siano solo intensamente liriche, come appare evidente, ma anche sottilmente visionarie. Di certo la pittura di Alberto non è realista, e neppure, a mio avviso, figurativa. Da quando un po’ tutta l’arte è diventata neo-pop, cioè interessata soltanto a come i nuovi mezzi di comunicazione ridefiniscano i processi iconici e creino meccanismi di consenso, termini quali realismo, figurazione e astrazione sembrano degli obsoleti attrezzi linguistici, anche se mantengono in sé la densità di significato delle tradizioni di pensiero che li hanno generati. La pittura di Alberto non è realista, né figurativa, né astratta, ma è qualcosa che da queste categorie prende comunque le mosse: è trasfigurativa, si pone al bivio tra il preciso dato di realtà e il puro stato d’animo, esprime un riverbero interiore volutamente impuro, perché non vuole fare a meno del reale o, forse meglio, della materia, che ha sempre una dose di protagonismo nei dipinti. Proiettato sul lago, questo sguardo tutto sommato paradossale rende ruvida l’acqua, priva la superficie lacustre di quella levigatezza assoluta e un po’ inquietante che la contraddistingue (ma più negli stereotipi che nella realtà), accentua il senso di profondità che è tipico di ogni lago (ma di quello di Como in particolare) privandolo allo stesso tempo di abissalità e virandolo verso una dimensione esistenziale, personale, più intima che metafisica.E poi c’è la notte: non il lago di notte ma, come suggerisce il capovolgimento attuato dal titolo della mostra, la notte di lago. L’elemento da cui partire per comprendere i lavori esposti è quindi la condizione notturna declinata nella sua variante lacustre. E, per l'esattezza, di quel frammento del lago di Como su cui si affaccia una villa isolata ed enigmatica, nella sua architettura così insolita, con un forte potere di suggestione che a volte sfiora la tenebra. Anche i dipinti di Alberto sono come sfiorati dalla suggestione della notte assoluta, ma si fermano prima, allo stadio in cui l'oscurità non è totalmente nera, ma di un blu scuro con una nota di calore, e in cui il buio non è ancora così corposo da farsi sostanza e perciò rimane atmosfera. Il fatto che questa pittura così evocativa sia stato suscitata da un progetto di illuminazione che ci si immagina hi tech, millimetrato, studiato fino allo spasimo, fa parte del bello delle fonti d'ispirazione. Che quasi sempre, come accade in certe ville, sono intermittenti, ma che quando sgorgano hanno un effetto prodigioso.
Qualcuno ha sottratto i colori al giorno per spalmarli sul buio della notte.
Qualcuno ha bagnato i pennelli nell'acqua scura e non saputa, lasciando liberi gli spiriti che avevano a lungo dormito dentro gli occhi, aspettando di correre sul nero nuovo.
Qualcuno ha riportato le tinte in terra dopo averle fatte volare come frecce di luce e ombra, vagabonde dentro tutte quelle urla di giallo che chiama, facendo strisciare lunghe lacrime commosse sulle onde buie.
Le macchie sono vive e si arrampicano imitando i vegetali coraggiosi e lanciando in giro ipotesi di percorso per lo sguardo e di ritorno a casa per il ricordo.
Qualcuno ha violato la tela per togliere peso al sogno di nuvola e di pupilla guerriera, dove i pali dal riflesso tremolante si specchiano vanitosi ma timidi nel bacino mosso ai loro piedi.
Qualcuno ha fatto respirare la pietra e il muschio, levigato le ombre, trasformato la musica in tratto, restituito dignità di pace ad un cielo fuso con la pianura innevata.Qualcuno ha viaggiato usando il pennello come bastone e la tela come balera per chi vorrà danzare con il proprio punto di vista, scoprendo la gioia di smarrirsi.
Pace, Poesia e Quiete, ma anche Rito, Ricordo e Appartenenza a un luogo, è tutto ciò che le tele di Alberto Colombo mi raccontano.
La sua produzione offerta e consacrata al Lario – specialmente a Torno – diventa autobiografia; sorta di topografia dei luoghi più cari e famigliari. Comballi, darsene, moli e imbarcaderi e ancora pontili, ceppi e rocce, diventano complementari dell’acqua, elemento imprescindibile per Colombo.
Il protagonista è un lago dalle mille sfaccettature: calmo e accogliente cullato dal caldo sole estivo, solcato dalle breve più fredde, danzante nei riflessi della notte, nostalgico ammantato di neve, tenebroso color petrolio dove l’acqua è più profonda.
Il ruolo preponderante del bacino lacustre si espande sulla tela, guidando in rapidi gesti la mano dell’artista, talvolta influenzando la stessa inquadratura della scena. Come nelle stampe giapponesi, il rigore simmetrico non è sempre rispettato; lo si può intuire in “Nevicata” , in cui il palo bianco e nero del pontile si staglia all’estremo margine destro del campo visivo, solitario, quasi inchinandosi al biancore che cala solenne sul porticciolo di Torno, invadendo completamente la superficie pittorica.Nell’opera di Alberto, acqua e cielo si uniscono creando un’immagine unica, senza delimitazioni profonde e nette, in cui la linea dell’orizzonte si dissolve. Nel senso di libertà di cui la tela è pervasa, gli unici elementi che si frappongono alla sconfinata distesa d’acqua sono riconducibili alle alte pareti rocciose (“Cepp Volt”, “Cepp de la Minzana”) e ai muri delle ville lariane (“Pliniana”, “A punta Pizzo” , “Sotto al muro giallo”).
Le radici espressive di Alberto Colombo affondano nello studio di architetture, nelle nature morte e nella rappresentazione di nudi femminili, dove la pennellata è densa e carica di tonalità vivide e ugualmente ombrose. La maturazione artistica acquisita nel tempo cede il passo a uno studio del colore come medium emozionale.
Le tinte si fanno più sfumate, leggere e libere; la linearità del tratto e i profili si perdono negli infiniti azzurri, nel tremolio e nel bagliore dei riflessi sull’acqua.L’habitus pittorico di Alberto è stato in più occasioni associato all’arte di Claude Monet: il senso di indefinito, l’osservazione di una realtà che diventa personale e soggettiva, la ricercatezza del colore, viaggiano spesso su piani paralleli: lo specchio di lago ceruleo raffigurato in “Darsena” potrebbe essere facilmente confuso con uno dei cieli tersi della campagna francese o con la superficie dello stagno dove galleggiano le ninfee.
La tavolozza di Colombo consta di pochi ma significativi colori: un inesauribile campionario di celeste e blu per il lago (dal polvere al violento blu Klein), di verde per gli elementi vegetali, giallo dorato nelle architetture che si specchiano sull’acqua o nelle fonti di luce, grigio per neve e bruma, bianco sfumato di nero nei ceppi.
Solo in sporadici casi, rari ma intensi tocchi di magenta diventano il fulcro della scena verso il quale l’occhio dello spettatore è immediatamente attirato, come nel caso di “Boa rossa” e di “Blevio”, dove gemme rosse emergono dalla maestosa magnolia di un giardino storico. Quelli che a prima vista possono essere interpretati come monocromi (“L’acqua del muro”), racchiudono un’illimitata serie di piani di lettura in cui le tonalità vibrano, variando a ogni osservazione e a ogni esposizione di luce.
Il colore talvolta etereo, in altri casi estremamente materico e prossimo all’astrazione, è messo a servizio del dato atmosferico nell’incedere delle stagioni: le sfumature sono più inconsistenti in un lago calmo, così come nella spessa ma impalpabile bruma del nevischio, mentre, nella serie delle breve, i venti che spirano da sud-ovest, la pennellata ricca di materia crea l’incanto delle increspature sull’acqua, come se la brezza soffiasse per magia sulla tela, animandola.
Le riflessioni di Alberto Colombo – frammenti di liturgia lacustre – e il dialogo intimo instaurato con il suo laach, diventano attimi sospesi nel tempo, che rammentano a chi è nato e vissuto sul lago il profumo dell’acqua dolce, quel vento caldo che soffia nelle sere estive, lo sciabordio dell’onda nel procedere lento della barca, le luci che nelle serate più calme ingioiellano le rive, fissando nell’animo affetti e ricordi che restano per sempre.
È sempre lì, Alberto Colombo. Anche se sono passati gli anni, anzi, ad essere sinceri, anche se sono passati i lustri. Sempre lì, davanti a quel nodo di acque inquiete e taglienti del suo Làach. Inchiavardato lì, come se quell’angolo di Lombardia dove terra e acqua sgomitano senza respiro fosse diventato un prolungamento di se stesso. Lì, in quel punto a cui è legato, a Torno sembra vincere la terra, che si incunea a triangolo nell’acqua, con un’aria di sfida. Una gobba che, immaginiamo, sposta le correnti, crea chissà quali mulinelli. Ma l’acqua risponde cadendo a precipizio, lasciando la terra sospesa su un abisso. Precipitano le rocce, precipitano persino le ville, che affacciandosi danno prova di spericolatezza e di nervi saldi. El Làach è luogo che concede poco, ha qualcosa di infido e sfidante. Le inarrivabili dolcezze manzoniane sono state confinate tutte sull’altro ramo. Qui c’è aria di frontiera, con la vista che si rovescia ad ogni curva, le pietre che pendono minacciose dai versanti, i profili sempre battaglieri e spigolosi dell’altra sponda. Carlo Cattaneo, nelle sue Notizie naturali e civili su la Lombardia, aggiunge poi un dato in più. «Queste masse d’acqua, incassate lungo il màrgine superiore d’una landa uniforme di masse erratiche e incoerenti… sembrano penetrare interne e sotterranee». Lo spirito del Làach cattura anche la terra e chi la abita; se ne impossessa; diventano tutte creature sue.Così è stato senz’altro per Alberto Colombo, che s’è attaccato come un lichene per accedere alla cittadinanza delle acque. «Viagi’n söl làac,/ cumè una musca’n söl vedru», canta il grande Van De Sfroos nel suo Fantasma del Làac. Colombo è creatura di quella risma. Taciturno, si muove come posseduto dallo spirito del Làach. Viaggia («vo’ inanz e indrèe») tra il Sass, il Cepp de la Minzana, la Streccia del Vapore. A volte Colombo disdegna la terra per avere occhio solo per le acque. Ma quel che è certo è che il suo punto di vista è sempre quello del Làach. Da lì guarda. Non solo: ma l’acqua tesa sembra essere la lente attraverso cui il suo occhio vede, proprio come il vetro per la mosca di Van De Sfroos. C’è sempre nella natura dei pittori un punto in cui non sono loro a governare il proprio destino. Un punto che nella mentalità comune è un punto cieco, ma che per chi dipinge è un punto di visione più pura. Così ci si spiega perché invece di variare i soggetti, in tanti si inchiodino su un unico tema. Ci restino come abbarbicati, quasi attratti da un richiamo più forte di ogni strategia e di ogni volontà. È una tipologia di pittori che finisce per appartenere al luogo che li ha generati proprio in quanto pittori. Colombo fa parte di questa famiglia. Si potrebbero evocare tante ascendenze per lui. Dagli sguardi furtivi gettati sul Monet mediterraneo, a quelli più scopertamente complici gettati sul Morlotti delle rocce di Finale. Ma poi ci sono anche Angelo Del Bon, Pio Semeghini, Adriano Spilimbergo con il lago di Novate Mezzola, propaggine del Làach. Ma alla fine la cifra per capire Colombo resta sempre e solo lui, el Làach. È qui a cui lui riporta tutto. El Làach, entità paterna e gelosa; che come il suono della parola s’allarga in quella doppia “a”, ma poi chiude, recide con la “c” dura che non lascia spazio ad altro. In mezzo c’è di che nutrire un’intera vita di pittore, che man man passa il tempo si fa più precisa proprio perché più appartenente al luogo del suo destino.
Nel percorso artistico di Alberto Colombo, per quanto vasta sia la collezione di opere dell’autore, sono individuabili un punto d’inizio e una tecnica ricorrente ne definiti: il lago.
Il suo lago di Como. Da sempre Colombo si aggira in questo luogo che ha ammirato in ogni possibile prospettiva, indagato in ogni suo particolare scorcio, studiato in tutte le situazioni climatiche, in ogni stagione dell’anno ma soprattutto che ha amato e ama.
Un luogo che ha fatto suo e che conosce a tal punto da riuscire a vederlo in modo sicuramente diverso da come potrebbe percepirlo in nostro occhio inesperto, cogliendoci ciò che di più superlativo, nascosto e intimo ha da rivelare.
L’autore mi ha raccontato di recarsi spesso in barca con sua moglie e dopo aver colto e scelto il particolare che lo ha maggiormente impressionato, torna a casa e con la memoria e con l’aiuto di schizzi elaborati sul luogo trasporta sulle sue tele il paesaggio e tutte le sensazioni e le emozioni che quel paesaggio gli ha regalato. Sensazioni ed emozioni che quindi, grazie alla sua arte, egli regala a noi.
E ce le dona soprattutto attraverso tele di grandi dimensioni così che meglio ci coinvolgano; se posso fare un invito lasciatevi proprio trasportare da esse, quando vi troverete davanti a un quadro di Colombo vi sembrerà di essere immersi nel paesaggio rappresentato. Una pittura che coinvolge anche perché estremamente materica, piena di tempera, molto viva, quasi tridimensionale. Ma nelle opere di Colombo c’è ancora di più; la prospettiva da cui egli osserva e quindi ritrae i diversi paesaggi e scorci è quasi sempre quella dal lago verso la costa e spesso egli ci rivela il paesaggio dal riflesso che il lago rimanda di questo. Ne scaturisce quindi un’immagine che non è mai completamente nitida, non è mai un mero ritratto di ciò che si osserva, ma è un paesaggio sfuocato, indefinito, che si intravvede e mai si rivela completamente. E’ il lago che con il suo specchio si prende gioco della realtà e la trasforma in qualcosa di più, in qualcosa di più misterioso profondo ed enigmatico. Le tele di Colombo proprio per le loro macchie di colore e le loro pennellate rapide si possono avvicinare speso all’astrattismo ma caratteristica propria della sua arte è che mai si perde completamente il contatto con la realtà, ma rimane sempre molto vivo e molto nitido il riferimento al soggetto dell’opera.
Nello studio della pittura contemporanea molto spesso mi sento come Diogene, che girava con la lanterna accesa in pieno giorno affermando che gli serviva per cercare l’uomo. Direi che oggi l’antica lampada ci serve prima ancora per cercare la pittura, la povera pittura, così scarsa, così timida, soprafatta dalle altre arti, più prepotenti quanto più vuote. Mi diceva qualche anno fa un anziano artista, grande disegnatore: “Guardi che stiamo dipingendo gli ultimi quadri della storia…”. Coraggio, maestro, non si perda d’animo, venga anche lei dietro la lampada a cercare qualche artista di talento e, trovatolo, gli diremo: non aver paura, dipingi, dipingi, dipingi, perché ti venisse un solo quadro bello sarebbe più santo di tutte le effimere stravaganze messe insieme e insieme destinate a spegnersi. Gira e rigira con la lampada in mano, a volte capita di trovarlo, quell’artista. E a me è capitato ieri. Si chiama Alberto Colombo, ha ben cinquantatre anni ed è tornato alla pittura dopo parecchi anni di lavoro sul vetro artistico. Misteri del cuore umano. Allora mi sono ricordato di avere guardato molte volte un suo grande dipinto giovanile nelle studio di Nicola Sebastio. Era una santa Caterina fatta di grumi colorati deposti sulla tela col fiato sospeso, tutta eterea e soprannaturale. Ora fissavo le nuove tele nella giovane galleria milanese Spazio Lumera (che dovrebbe avere anch’essa come insegna la lanterna di Diogene, perché questo fa) e pensavo: guarda te come i vetri hanno imposto il loro modo di vedere! Velature, trasparenze, inafferrabilità, luce cangiante, ecco il vetro. Questo Colombo frequenta il paese lariano di Torno ed è anche pescatore, uno che guarda molto l’acqua del lago e quelle rive che, dall’acqua, sfuggono irreali tra la nebbiosa, inverosimile luce. Io lo capisco perché guarda caso frequento il paese che gli sta esattamente davanti, sull’altra sponda, Urio. Chissà quante volte l’avrò visto sulla barchetta e non conoscendolo… Spero che non abbiate capito male. Queste non sono vedute da salotto, è pittura alta trovata da Diogene dopo qualche annetto di magra. Perché – e qui arriviamo al secondo punto – il povero Diogene cerca l’uomo, un’arte umana. Detto al contrario: non cinismo, non nichilismo, non banalità, non decorazione, non oscenità, non rinuncia, non eccetera. Quel dipinto che quando lo guardi ti senti qualcosa dentro. E questo è successo a me ieri pomeriggio. Quei manti d’acqua che si avvicinano al monocromo ma che le fotografie non renderanno mai, tanto sono profonde e raffinate le velature. Pensavo a Rothko o al primo Rainer. Lezioni imparate, un’emozione. E più ancora quelle sponde rocciose e alberate, cui grasse pennellate informi restituiscono l’originale mistero sezionato dalla luce. C’è forza e c’è amore in queste tele e c’è sapienza pittorica e c’è ottimo mestiere, vedi sennò la rifinitura con la vernice tradizionale. Qui viene meno ogni discorso d’accademia: ritorno alla figurazione, rivalutazione del paesaggio, sostanza del colore, e altre considerazioni che uccidono il dipinto. Che è l’unico a parlare e nessuna di quelle cose è del tutto vera né tanto meno è tutta la verità. La buona pittura (rara) ama il silenzio. Io non so cosa si dice di questo Colombo, non so se abbia una bibliografia critica, non ho visto cataloghi né quei cimeli che gli artisti mediocri custodiscono come reliquie di se stessi. Perciò, a prescindere, gli racconterei un famoso aneddoto di Diogene: quando lo incontrò, Alessandro Magno gli chiese di esprimere un desiderio e Diogene, per tutta risposta, lo pregò di spostarsi perché la sua ombra gli impediva di prendere il sole. Ah se i veri artisti non si lasciassero omologare dai “magni”.
Dopo un lungo periodo di “vacanza” dalla pittura, Alberto Colombo vi è ritornato di recente. Ed è come se questo lungo interludio avesse in lui affinato le antenne, conservato e anche consolidato una capacità di attenzione, di concentrazione profonda. E sembra che questo ritorno sia legato all’incontro con un luogo preciso, il lago appunto. E’ interessante come le sue immagini siano “lacustri” in un senso molto particolare, per così dire, intrinseco. E’ in effetti raro che ci sia dato di vedere il paesaggio lariano come tale. Questo è piuttosto evocato, molto indirettamente, attraverso dei “tagli” dell’immagine che ci tengono in sospeso tra la profondità di una scena e l’imminenza della pittura. Dunque, uno stato di sospensione, di attesa, che non viene meno neppure là dove l’oggetto è più naturalisticamente evocato (“Neve sul pontile”), ma che può arrivare al punto di una quasi totale immersione nel puro colore (“L’altra sponda”). E’ come se la pittura di Colombo si collocasse davvero tra…cioè, tra due sponde: questa, dove siamo noi, e quella, dove la realtà è chiamata a manifestarsi senza mai darsi del tutto. Noi siamo la “streccia”, o gli “alberi a lago”, che ci affacciamo su questa superficie (lago-tela). Si tratta, ovviamente, del fenomeno dello specchio, del riflesso, mito fondatore della pittura. I maestri del passato usavano lo specchio in cui riflettere l’immagine proprio per concentrare di più la visione. Qui, invece, lo specchio d’acqua serve a mobilitare non la visone focalizzata, ma piuttosto quella “laterale”, la visione “riposata”. Un senso di riposo e di quiete trasmettono infatti le tele di Colombo. Il mondo dei riflessi è mondo intermedio tra realtà e pittura, una realtà che è già immagine e una immagine che all’uomo non chiede altro che la collaborazione dell’occhio: una realtà ottica, appunto. Quella stessa realtà cui fece ricorso Monet, nella tarda maturità, per realizzare una sorta di esperienza totale della pittura. Come il laghetto di Giverny, la Pliniana di Colombo offre questa esperienza, che è anche esperienza di sprofondamento, di discesa nei moti infinitesimali della pittura. E’ una sorta di cielo “di sotto”, meravigliosamente evocato nel suo scintillio notturno in “Notte al molo”, o anche in “L’ultimo lago”: qui il cielo diurno si restringe nell’angolo superiore sinistro e, per il resto, non è la notte che scende su di noi, ma siamo noi che scendiamo nella notte bituminosa della superficie lacustre in cui palpitano residui d’azzurro Senso di sprofondamento che ci comunicano anche immagini che in sé parrebbero molto diverse, opposte: quelle dei “Ceppi a lago”, per esempio, ove è la superficie dell’acqua, ora, a restringersi, in una sottile banda di un blu intenso, in basso, mentre il resto del dipinto è occupato dall’ immane parete rocciosa, sbrecciata, stratificata, lavorata a pennello con la stessa delicatezza dei riflessi lacustri. Tra parentesi, i titoli delle opere di Colombo, sono spesso molto evocativi, pur essendo del tutto sobri, oggettivi, aderenti all’oggetto, alieni da velleità letterarie.L’architettura, per lungo tempo passione concorrente e alternativa alla pittura, ritorna emblematicamente in alcune opere misteriosamente associata all’acqua (“la fonte”) o, dallo specchio di questa, rovesciata e trasfigurata.Un altro fenomeno di sospensione troviamo nella serie dei “Comballi”. La caratteristica imbarcazione lariana, ancora, è più evocata che descritta, nel senso che la forza dell’immagine è affidata al dialogo tra due “tessuti”: la tela incollata, grande rettangolo irregolare, solcato da pieghe e riflessi; la tela dipinta che la ospita come superficie sovrapposta e, nello stesso tempo, come massa di colore in accordo con le delicate tonalità dello sfondo. Singolare sospensione, allora, tra rappresentazione e presentazione dell’oggetto, tra illusione e allusione.A questo punto si comprende come la pittura di Colombo si colloca nella zona d’ombra di un naturalismo autre, ove l’immagine non è né pura proiezione soggettiva né pura riproduzione ma una sorta di intermediario tra interno ed esterno. Ove il colore mantiene la consistenza del pigmento ma nello stesso tempo si emulsiona in una luce penetrabile e, nello stesso tempo, radiante, espansiva, da cui risulta una visione intensa nella osservazione del dato e, insieme, infinitamente evocativa. Resta da dire che il tocco sfrangiato, irregolare di Colombo non ha alcuna enfasi gestuale, semmai il tremito discreto di un arresto, di un ritrarsi, mentre la superficie pittorica è gestita con una assoluta economia di segni. Bentornato, Alberto, alla pittura.
Innanzitutto l’omaggio a chi omaggio è dovuto: sappiamo un po tutti, infatti, o per lo meno lo sanno coloro che la Brianza hanno conosciuto e amato, come quella terra per secoli si sia portata dentro un silenziosissimo cruccio: quello di non riuscire a generare un figlio che ne esprimesse con la pittura, i dolcissimi, indimenticabili valori. Di lettereati e poeti non gliene erano certo mancati, ma un pittore che fosse uno, un pittore che portasse nel mondo la sua verità e la sua bellezza, quella terra non ne aveva mai avuti.
In questo secolo tuttavia, la Brianza è riuscita a levarsi anche questa spina: di lei, delle sue luci, delle sue linfe, dei suoi colori s’è nutrito (e nutrito assai più <<fisicamente>> che non metaforicamente) uno dei più grandi talenti, una delle più grandi <<nature>> della pittura italiana dell’intero secolo, cioè Ennio Morlotti.
E non solo: perché spesso accade che una terra si fregi di un fiore all’occhiello e che poi, passata la stagione, si ritrovi di nuovo sguarnita e a mani vuote. Invece con Morlotti questo non è accaduto (ed è proprio il motivo per il quale vogliamo rivolgergli il presente, speciale omaggio); lui ha saputo per così dire, essere anche padre, ha saputo cioè presentare alla Brianza, ai sui figli, come quella terra possa, anzi debba essere cantata o meglio rappresentata e sigillata dentro l’evento della pittura; come quella terra possa e debba cioè rigenerare, proprio da se stessa, dal proprio grembo altri bellissimi incontestabili talenti; ed oggi ne abbiamo di fronte uno dei più sicuri, quello cioè di Alberto Colombo.
Non si tratta naturalmente di legami flebili, aerei: quando parliamo di <<procreazione>>, dela passaggio da un padre, Morlotti, a un figlio, Colombo, ne parliamo in termini concreti, immediati, fisici. Tanto più che non si tratta di una genitura di quelle che sempre più sovente il mondo moderno ci presenta drammaticamente distrutte e disintegrate; si tratta di una genitura salda, tanto salda da riuscire ad essere richiamo, segno anche al figlio che s’è allontanato su strade straniere, al figlio che l’ansia ha condotto fuori dalle strade di casa. Questa è infatti la storia di Alberto Colombo, il quale addentrandosi nel cuore della Brianza dentro i regni della pittura s’era lasciato catturare da quel coacervo di esperienze tra materiche, informali ed anche espressionistiche che hanno fatto del dopoguerra, di tanta pittura, europea e non, un magma, nel quale proprio per mancanza di un padre, si sono insabbiati tanti probabilissimi talenti.
Alberto Colombo, invece, il padre l’ha avuto; un padrevero che quell’esperienza costruita tutta sul filo del caos ha saputo recuperare e ribaltare in valore, in un di più di ricchezza. Così la mostra che oggi abbiamo di fronte festeggia, anzi sancisce questo bellissimo ritorno: lo festeggia perchè questa conferma come in Alberto Colombo sia avvenuta questa rarissima, stupenda assimilazione, per la quale, nei suoi quadri, tra le superfici spericolate della modernità sono raffiorate le luci, i bagliori della terra. Già lo avevamo potuto verificare l’anno passato quest’avvenuto ritorno, allorché cioè ci era stata presentata quella grande <<meditazione>> sulla Pala Pesaro di Bellini (certo, in assoluto uno dei più convincenti tentativi di recuperare l’arte di questi nostri tempi ad una funzione e ad un’immagine religiosa e cristiana); in quel quadro, sullo sfondo, tra lo sfaldarsi dei marmi intarsiati eran riapparsi, bellissimi, i verdi, le terre, gli azzurri della Brianza, lì insomma tra immagini recuperate, fatte riaffiorare dalla superficie perduta del tempo, la Brianza era tornata a pulsare.
Oggi per quel ritorno riceve una conferma bellissima e del tutto definitiva con quel quadro con <<Mele e fico>>: una grande superficie bianca lo ricopre, quasi un muro dove si siano coagulate tutte le ansie, le screpolature del nostro presente, ma un muro che sia stato spaccato nel mezzo. Così da quella ferita aperta, si sono rovesciati fuori di nuovo, ancor più sicuri e consapevoli, i verdi cupi, le terre, gli ocra, i rossi-smeraldo della Brianza; tanto sicuri e consapevoli da saper dettare da sé, questa volta, la grammatica, le regole del proprio spazio; e dal disporsi, lì, in mezzo al bianco, con un’autorità e una giustezza che oggi è solo tutta da ammirare.
Nella pittura di Albert Colombo il bianco con le sue molteplici tonalità è il protagonista luminoso, così come il nero che gestualemente segna e sottolinea la composizione o campisce zone d’ombra non sempre della stessa preziosi di bianco.
I soggetti sono ricordi, appunti di viaggio, poi ampliati in grandi tele: antiche architetture ricreate con le emozioni di uno stato d’animo felice o tormentato, rese attuali da un linguaggio contemporaneo; paesaggi di Roma e di Venezia trasognati o la città incupita sui toni grigi, che pesantemente e drammaticamente si muove e respira.
L’opera pienamente realizzata, forte, gioiosa, dilatata, dove anche il segno nero diviene colore, è la “Cupola di S. Pietro”; centro, paradiso emozionale della cristianità e di due sposi in viaggio di nozze.
Questa cupola è il Cantico dei Cantici di Alberto e Franca. Essa ha avuto una preparazione espressa in una serie di piccoli quadrati dipinti e generati dalla verticale, dall’incontro della verticale con l’orizzontale in numerosi punti riposanti alla base sopra linee rosse. Manca però in questo schema preparatorio l’elemento avvolgente, affettuoso e materno principale che il quadro comunica con prepotenza e con gioia.
Altro soggetto: l’albero dalla semplice chioma ovale sorretto dall’esile tronco e anch’esso trasfigurato dalla luce colorata bianca, verde, rosata.
Vi è anche una Madonna belliniana, trasformata in zone di colore sospese nell’atmosfera: sembra una apparizione. Colombo ha pensato di inserirla fra due quadri dipinti su specchi con fotografie di bimbi e ragazzi: l’accostamento è interessante e indica il veloce processo di evoluzione e il tentativo di inserire il quadro nell’ambiente che lo circonda.
Mi sembra di assistere al nascere, allo svilupparsi molto promettente di un giovane pittore particolarmente dotato e, nella cerchia dei suoi amici, al sorgere si un movimento artistico che affonda le radici nella spiritualità contemplativa degli antichi Padri ricreata con la sensibilità del nostro tempo.
Sta sorgendo forse e finalmente un movimento che tra tanto smarrimento si apre alla speranza.